Il funzionamento della nostra mente: gli automatismi dei nostri schemi mentali e come questi possono influenzare in modo significativo, pensieri, opinioni e azioni.

 

Sempre presi dalle attività spesso non ci fermiamo a capire come siamo arrivati a creare una determinata opinione e come abbiamo preso quella determinata decisione, sia essa personale che lavorativa.

In linea generale, negli anni, si è arrivati alla conclusione che l’uomo è un ricercatore di consistenza, ossia costantemente determinato a ricercare l’equilibrio e coerenza tra gli elementi cognitivi che caratterizzano il suo sistema di credenze.

Ma è anche uno scienziato ingenuo, cioè caratterizzato dal bisogno di prevedere il futuro e controllare gli eventi: se riusciamo a capire quali fattori hanno prodotto un certo risultato, presumibilmente saremo in grado di controllare la probabilità con cui questo risultato si potrà verificare.

In ultimo l’uomo è economizzatore di risorse. L’assunto di base è che le persone possano disporre di risorse limitate nell’elaborare le informazioni sociali e quindi tendano ad utilizzare strategie capaci di semplificare i problemi che devono affrontare.

Partendo da ciò, ci colleghiamo al concetto di schema mentale. Gli schemi sono i princìpi organizzativi con cui ognuno interpreta la realtà. Nascono dalla necessità umana, come anticipato, di costruire una rappresentazione del mondo che sia stabile e coerente; questo perché sapere come funziona l’ambiente in cui si vive, permette di anticipare possibili risposte e adattarci meglio.

E’ una forma di pensiero, non consapevole e non intenzionale ma veloce ed efficiente, che prevede l’impiego di scorciatoie mentali. Gli stereotipi sono una conseguenza di questi automatismi mentali.

Gli stereotipi sono delle particolari rappresentazioni mentali che permettono di attribuire, senza nessuna distinzione critica, delle caratteristiche a un’intera categoria di persone non curanti delle possibili differenze che potrebbero, invece, essere rilevate. Per questo, gli stereotipi sono spesso delle valutazioni o giudizi grossolani non del tutto corretti.

Patricia Devine ricercatrice americana, già nel 1989 asseriva che tutti gli individui che vivono all’interno di uno stesso ambiente sociale, a prescindere dal grado di pregiudizio che li contraddistingue, sono a conoscenza degli attributi stereotipici associati ai gruppi “esterni”. Poiché nel corso dei processi di socializzazione non è possibile evitare di venire esposti agli stereotipi (tramite mezzi di comunicazione e la socializzazione in generale), tutti apprendono quale sia l’immagine stereotipica dei più rilevanti gruppi sociali.

In altri termini, tutti attivano gli stereotipi allo stesso modo e solo con uno sforzo successivo di pensiero controllato (dispendio di energie), esso si traduce in una elaborazione più consapevole e critica, meno in direzione dello stereotipo.

Un altro interessante esempio è il fenomeno della profezia che si autoavvera. Il sociologo Merton ne parlò per la prima volta negli anni ‘70, ed è stata anche riprodotta sperimentalmente a dimostrazione dell’influenza che esercitano le convinzioni sulla costruzione della realtà. Infatti, pensiamo all’effetto placebo: succede che chi subisce questo comportamento ottiene esattamente quello che vorrebbe si verificasse, a conferma della grande potenza della suggestionabilità umana.

Ulteriore esempio interessante, ma inquietante, è l’esperimento carcerario di Zimbardo, volto a indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza.

L’esperimento prevedeva l’assegnazione per 15 giorni, ai volontari che accettarono di parteciparvi, dei ruoli di guardie e prigionieri all’interno di un carcere simulato. Fu condotto nel 1971 da un team di ricercatori diretto dal Prof. Zimbardo dell’Università di Stanford. I risultati ebbero dei risvolti così drammatici, da indurre gli autori dello studio a sospendere la sperimentazione dopo sei giorni. Tra i 75 studenti universitari che risposero all’ annuncio, gli sperimentatori ne scelsero 24, maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti; furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I prigionieri furono obbligati a indossare divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine. Tale abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di de – individuazione.

Dopo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle, inveendo contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà che si era sviluppato fra essi. Le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene e a pulire le latrine a mani nude. A questo punto i ricercatori interruppero l’esperimento, suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati e dall’altro un certo disappunto da parte delle guardie.

Secondo l’opinione di Zimbardo, la prigione finta, nell’esperienza psicologica vissuta dai soggetti di entrambi i gruppi, era diventata una prigione vera.

Il processo di de-individuazione induce una perdita di responsabilità personale, ovvero la ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie azioni. La de-individuazione implica perciò una diminuita consapevolezza di sé, e un’aumentata identificazione e sensitività agli scopi e alle azioni intraprese dal gruppo: l’individuo pensa che le proprie azioni facciano parte di quelle compiute dal gruppo.

In conclusione, nessuno di noi è immune da questi funzionamenti mentali: il cognitive miser, l’umano che con superbia crede di operare decisioni razionali e totalmente svincolate da categorizzazioni, stereotipi e più in generale credenze che dominano il sociale. L’interesse di Mylia è meramente quello di offrire uno spunto di riflessione sul tema, che ci induca a ragionare sui nostri meccanismi di funzionamento e, magari, riuscire così ad arginare le scorciatoie mentali, senza dimenticare che questo significa anche essere a conoscenza dei limiti e delle distorsioni operate dal pensiero umano.

E voi, quale scorciatoia mentale applicate più spesso?

Chiara Araudo, Training Project Manager, Mylia

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