Competenze utili alle aziende, che esse spesso ignorano
Decido di scrivere questo articolo non essendo ancora “di fatto” mamma, ma essendo in procinto di esserlo.
“L’esperienza che più di ogni altra cosa ti cambierà la vita” dicono tutti… Eh si, perché le attività triplicheranno, il sonno dimezzerà, in casi fortunati, le priorità verranno totalmente sconvolte. Un sentimento misto tra eccitazione e paura travolge chi, per la maggior parte del tempo trascorso, ha dedicato la sua vita al lavoro come principale attività.
Intorno si sente dire che alcuni imprenditori preferiscono le donne che abbiano superato l’età della maternità perché possono dedicare anima e corpo al lavoro senza distrazioni o altri impegni.
Ora, al di là della potenziale polemica su quante debbano essere le ore della giornata da dedicare al lavoro, che si parli di donne ma anche di uomini, concentro la mia attenzione su un altro tema: quanto la maternità possa “arricchire” le donne di alcune competenze e quanto essa rappresenti non solo una palestra, ma un vero e proprio master formativo.
Madri, ovvero continuous learner ed esperte di trasformazione organizzativa
Il percorso verso la maternità appare assai complesso e tortuoso.
Nelle donne in attesa de* loro figli* avviene qualcosa di inaspettato ancora prima del parto: ovvero “ricominciano ad imparare”, il cervello si rimette in moto, aumenta la curiosità, si legge, ci si documenta. Tutto ciò, non ci ricorda il concetto di Continuous Learning tanto caro alle organizzazioni che aspirano ad avere persone sempre pronte ad apprendere perché siano in grado di affrontare sfide che vanno di pari passo con i mutamenti di contesto e di scenario?
Inizia poi il momento del “cambiamento fisico”: il corpo si trasforma e si rende abile ad accogliere un altro essere vivente, alcune parti crescono, altre si spostano, altre ancora si ammorbidiscono. E questo richiama alla mente il concetto di “trasformazione organizzativa”. Quante volte abbiamo sentito dire che le organizzazioni che non cambiano e restano immobili sono destinate a non essere più efficaci in un mercato sempre più “spietato” e competitivo?
Ad un certo punto poi, passato il senso di nausea ed altri disturbi, ecco che appare il “senso di onnipotenza”, la determinazione nel voler creare il nido sicuro per il/la piccol* in arrivo, quella naturale tendenza all’acquisizione di una leadership votata al raggiungimento di specifici obiettivi volti a proteggere chi fa parte del proprio team o della propria famiglia rispetto alle insidie che provengono dall’esterno.
Eppure spesso accade che le donne in stato di gravidanza vengano coinvolte sempre meno nella varie attività: meno riunioni, meno mail, meno prese decisionali. E risulta strano come non sia stata mai indagata la capacità di leadership nelle donne/madri. In una ricerca del Wellesley Centers for Woman del 2001 l’obiettivo era indagare le caratteristiche femminili della leadership su un campione di donne di potere americane. La ricerca non prevedeva capitoli né domande sulla maternità, ma la maggioranza delle intervistate ne ha parlato così tanto da obbligare gli intervistatori a dedicarvi un report ad hoc nel 2006.
Da questa ricerca risulta evidente come la maternità rappresenti una vera e propria “palestra di leadership” fatta di negoziazioni con i figli, pazienza allenata all’estrema potenza, ascolto come capacità di intuire più di quanto si dica.
Oggi esistono ancora molti stereotipi che portano ad avere nelle organizzazioni leader uomini in misura maggiore delle donne. Non esistono molti modelli di leadership agiti al femminile, il mondo del lavoro è stato progettato per gli uomini, le donne vi si sono affacciate con notevole ritardo. Il fatto, inoltre, che in molte culture la mascolinità e la leadership siano collegate appare indiscusso. Dalle donne, in queste culture, ci si aspetta gentilezza, cura e attenzione agli altri più che a se stesse.
Fortunatamente, sempre di più stiamo assistendo ad una serie di trend che vanno in direzione della valorizzazione della diversità, dell’attenzione al gender gap, dell’agire in ottica di inclusione in misura maggiore rispetto a solo qualche anno fa.
Altro dato significativo: le statistiche ci danno continui bollettini sull’infelicità “at work” (Istituto Gallup 2011-2012); una vasta maggioranza di persone pensa che il proprio lavoro vada a totale discapito del benessere personale. E se è vero che oggi alle organizzazioni è richiesto di prendersi cura delle proprie persone e di pensare al loro benessere per influire positivamente sulle loro stesse performance, chi potrebbe farlo meglio di chi, della presa di cura altrui, ne ha fatto un imperativo di vita?
Francesca Finocchi, Comm. & Events Coord. Mylia