Tra i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile – Sustainable Development Goals, SDGs – dell’Agenda 2030, il goal 5 si prefissa l’obiettivo di raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze. E più in generale il goal 10 mira a ridurre l’ineguaglianza all’interno e fra le Nazioni.
I dati più noti che caratterizzano l’Italia sono il basso tasso di occupazione femminile con 51,4% (con un gap di genere del 18%) e uno dei tassi più bassi al mondo di natalità con un numero medio di figli per donna di 1,25. I dati sono autoevidenti considerando anche il sostanziale lavoro di cura che continua ad essere a carico delle donne e la cosiddetta child penalty – il costo sul mercato del lavoro della nascita di un figlio –che ha effetti negativi soprattutto in assenza di servizi di cura a supporto.
Se si analizzano poi i dati delle donne occupate abbiamo due metafore che vengono spesso citate: la metafora del pavimento appiccicoso – sticky floor – utilizzata per far riflettere sulla segregazione verticale che vede le donne costrette in posizioni medio basse e, conseguentemente, meno remunerate e il glass ceiling (il soffitto di cristallo). La percentuale di donne nei Cda è solo del 35%, mentre solo il 3% delle aziende in Italia è guidata da Ceo donna.
Partendo da questi dati poco incoraggianti proviamo a fare delle considerazione/riflessioni insieme a Maura Gancitano- Filosofa ed ideatrice del progetto Tlon- che tra i tanti temi di cui si occupa, inserisce spesso quello relativo all’educazione di genere.
Vorrei partire da una considerazione che è frutto anche di una ricerca che ho letto.
Si tratta di uno studio sul gender gap che oltre ai soliti report relativi a quante donne occupano posizioni di potere in azienda o su quale sia il gap sulla retribuzione donne/uomini, riporta anche un dato molto interessante definito “Gender backup”, relativo al numero di donne che sta lasciando le organizzazioni. Si tratta di un argomento molto in linea con il tema great resignation di cui si parla tanto, che pone l’accento su un interessante aspetto relativo alle motivazioni che stanno spingendo queste donne a lasciare le organizzazioni. Sono soprattutto motivazioni legate al non riuscire più a persistere all’interno di una cultura tossica, lì dove per cultura tossica, intendiamo cultura irrispettosa, non inclusiva o spietata. Con un paradosso ulteriore che deriva dal dato che le donne lavorano tantissimo, in quelle funzioni di cura e di sostegno in cui però, evidentemente, questa tossicità è molto più forte. Probabilmente questo dipende anche dal fatto che in questi stessi settori le donne sono poco spesso in posizioni di potere. Ma il potere è quasi esclusivamente lasciato nelle mani degli uomini.
Quanto questa, dal tuo punto di vista, può essere una riflessione dalla quale partire o un tema sul quale spostare il racconto che si fa delle donne all’interno delle organizzazioni, per mettere l’accento, non solo su un tema di genere, ma su un tema di cultura?
Si questa cosa è molto interessante. Tra l’altro un paio di anni fa era stata fatta in Italia una ricerca sulla politica e le ragioni per cui le donne se ne allontanavano. La causa di questo allontanamento era molto legata a questo: cioè al fatto che, in qualche modo, devi accettare un modello che non ti appartiene ma che sembra inevitabile, quindi senza alternativa. Nel senso che la critica molto spesso rivolta alle donne che hanno ruoli di leadership è che finiscono per comportarsi come gli uomini. Effettivamente a volte è inevitabile. Nel senso che se proponi un modello diverso fai estrema fatica, devi accettare che ci sia solo un modo per fare le cose, che ci siano solo certi ritmi e non altri, nel caso della politica – ma in realtà secondo me questo accade nel contesto lavorativo in generale.
C’è anche una questione di disponibilità, per cui le riunioni si fanno solo in determinati orari spesso particolarmente complicati per le donne, ci sono tutta una serie di microaggressioni, c’è il sessismo benevolo, tutti aspetti molto delicati in un momento in cui tante persone- anche uomini -stanno rimettendo in discussione proprio il rapporto con il lavoro. Questo tocca molto particolarmente le donne che ad un certo punto si domandano “Chi me lo fa fare?”. Ad aggravare ciò c’è anche il fatto che le donne si sentono molto responsabili per tutto il nostro genere. Cioè sentiamo che quello che stiamo facendo, lo stiamo facendo anche in quanto donne e quindi, secondo me, c’è anche un grande senso di responsabilità, a volte quasi un senso di colpa che però in questo momento si scontra con questi stili.
Guardiamo anche quello che è accaduto alle due prime ministre che hanno lasciato il potere, probabilmente anche nel loro caso questo è successo a causa di ritmi insostenibili. Ma quello che rischia di emergere, il rischio reale è quello di vedere queste dimissioni come una sconfitta o una debolezza. In realtà, secondo me, questi fatti dovrebbero mettere tutti in allerta, dovrebbero spingere a chiederci effettivamente perché sta succedendo, cosa si può cambiare. E le risposte dovrebbero riguardare tutti, per evitare il pericolo che poi queste donne vengano criticate per non essere abbastanza forti. Hanno accettato di essere ancelle del patriarcato, senza riuscire poi a sostenerlo.
Questo quanto secondo te dipende dal fatto che quando cresciamo, professionalmente, ma anche a scuola, alcune cose ci vengano in qualche modo trasmesse. Impariamo da subito che è normale che devi dare sempre di più, che è normale non aspettarti ricompense per alcune cose che comunque devi fare- e che poi traslato sul lavoro diventa: “tu devi fare il tuo lavoro, ma anche tutto il resto”.
E diventa normale anche fare fatica a parlare del proprio merito, una parola che non viene quasi mai fuori quando si parla del percorso di crescita di una collega. Forse dobbiamo iniziare a parlarne? Iniziare ad instillare il tarlo che il merito è una cosa positiva? parlare di soldi quando si fanno colloqui in azienda è una cosa legittima?
Si esatto, ricordiamo a riguardo quel famoso studio inglese per cui una donna manda un application per una posizione lavorativa quando è sicura di avere almeno l’80% dei requisiti richiesti contro il 50% degli uomini
Quindi si, dipende molto dal fatto che introiettiamo certi stereotipi , che non vengono solo da fuori, ma molto spesso ce ne convinciamo anche noi e quindi quello che accade molto spesso è il fatto che le donne danno per scontato di dover fare sempre di più, di non fare mai abbastanza in ambito lavorativo rispetto alla propria mansione e non puoi sottolinearlo perché rischi di sembrare petulante, una che si lamenta sempre, o che vuole ricevere complimenti. Questa è una questione raccontata bene nel libro di Sandberg “Facciamoci avanti” che riprende molte ricerche – soprattutto della Harvard School – proprio legate alla fatica, alla difficoltà del farsi avanti e nel sottolineare le proprie esigenze; per cui se tu hai anche delle esigenze personali, non le dici e quindi questo rimane un tuo fatto privato. La difficoltà rilevante nell’ambito lavorativo, di problemi che rimangono fatti privati, anche quelli piccoli legati alla salute, ad esempio le disabilità invisibili, che sembrano quasi più una colpa anziché qualcosa da tutelare sul luogo di lavoro.
Gli stereotipi e pregiudizi inconsapevoli arrivano ovviamente da fuori, però purtroppo li giustifichiamo o addirittura li alimentiamo. Quindi io credo che debbano esserci due movimenti: uno che riguarda l’esterno e un altro che riguardi sé stessi, la propria percezione, la percezione di una serie di dinamiche che ci condizionano
Un’ultima domanda: quanto secondo te è sano parlare di queste tematiche con la sola accezione gender- alias donna- quando invece le cose che ci stiamo dicendo non riguardano solo che le donne all’interno dell’organizzazione, ma hanno invece un peso molto forte anche per gli uomini. Quanto sarebbe importante rompere questo tabù e far venire fuori tutta una serie di riflessioni e bisogni che anche gli uomini hanno rispetto alcune tematiche che vengono di default pensate come territorio di pertinenza delle donne? Forse questo li aiuterebbe anche a liberarsi di pesi che hanno dentro le organizzazioni?
Si questa cosa è importante per due ragioni principali. La prima perché in effetti se vogliamo raggiungere la parità di genere è sostanziale che cambi qualcosa anche nel modello maschile; che cambi anche la gestione della paternità, cioè la parità in ambito lavorativo sia praticamente l’opposto a quanto accade oggi, ne ho parlato qualche mese fa con Susanna Camusso e lei diceva che “come raggiungiamo la parità di genere? con la parità della paternità” cioè, senza la discriminazione sulla paternità. Le difficoltà della maternità in realtà si possono superare se appunto realmente il carico viene effettivamente diviso.
E poi c’è proprio la questione lavorativa, nel senso che molto spesso quando si parla per esempio di diversità e inclusione gli uomini si sentono o tagliati fuori o si sentono accusati di qualcosa che non hanno fatto. Quando affrontiamo questi temi in realtà si parla, ovviamente anche degli uomini, nel senso che anche gli uomini vivono degli stereotipi e gli stereotipi riguardano moltissimo le emozioni, il fatto che vengono giudicati come delle persone poco emotive o che hanno una sensibilità inferiore rispetto a quella femminile. In realtà, non è così. Dipende moltissimo dalle persone, quindi, è fondamentale parlare di parità. E appunto cercare di introdurre nell’ambito lavorativo un’ottica inclusiva significa anche creare gli spazi in cui gli uomini possano esprimere anche nella vulnerabilità.
Quando parliamo di lavoro non dobbiamo mai dimenticare che parliamo di persone che lavorano all’interno di contesti che sono fatti di emozioni, fastidi irrisolti, pregiudizi, rapporti con altri generi complicati e, quindi, percezioni che dipendono anche dalla cultura. Per cui bisognerebbe parlarne anche in un’altra ottica perché se no il rischio è che noi donne ci carichiamo del peso di dover risolvere da sole un problema che non abbiamo creato noi.
Invece è importante che tutte le persone che oggi fanno parte del Mercato del Lavoro si rendano conto che è nell’interesse di tutti provare a collaborare, altrimenti davvero la percezione che sia un “donne contro uomini”, ma in realtà non è così.
Infatti, non deve essere così. Grazie mille Maura