Il potere generativo delle metafore è uno strumento molto potente ma va usato con attenzione se vogliamo che chi ci ascolta intenda le stesse conseguenze che noi diamo per scontate
Avete mai notato che durante una riunione le similitudini, le analogie, le metafore fanno parte in maniera naturale del modo di descrivere la complessità, le relazioni, il nostro modo di lavorare?
Si potrebbe dire che il primo modo per cercare di intendersi quando si parte da presupposti (ruoli, competenze, posizioni) differenti, sia la ricerca della metafora adatta.
E’ un processo cognitivo tutto sommato abbastanza semplice: “capiamoci”, “intendiamoci”, “immagina che…”. E, accanto, ci mettete una metafora che rappresenti l’oggetto, la questione che il nostro interlocutore dovrebbe immediatamente figurarsi così come ce la immaginiamo noi. In realtà noi nel momento in cui ci esprimiamo abbiamo già attribuito un chiaro senso a ciò che proiettiamo nella nostra visione: ma come in tutti i processi comunicativi, chi riceve vede ciò che vediamo noi?
Lavorare sulle metafore ci aiuta nell’efficacia comunicativa e nel design organizzativo.
Non è roba da consulenti di direzione né da teorici organizzativisti: ciò che sta dietro o dentro una metafora fa la differenza tra essere allineati o andare dritti, dritti nel mismatch delle aspettative per esempio tra un committente dalle idee “chiare” e un consulente “disallineato”. Il non intendersi molte volte è solo questione di come rappresentiamo agli altri ciò che pensiamo.
Non vi è nulla di sbagliato, nessuno sta sbagliando: stiamo attribuendo un senso diverso a concetti e idee. Il mismatch in molti casi non è un problema di chiarezza espositiva ma di allineamento.
Proviamo allora a delineare alcuni esempi di modi di rappresentare metaforicamente un’organizzazione e deriviamone conseguenze per il design o redesign successivo.
“Questa organizzazione è come un organismo”
Ciò che questa metafora riproduce nel senso comune è quello di una organicità, di un “andare assieme”, di componenti specializzate ma interdipendenti. Di più: quando apriamo le porte a concetti etologici, stiamo dando per scontate organizzazioni aperte ad un ambiente esterno, fortemente condizionate da questo, suscettibili di allineamenti continui, mai in stato permanente di benessere se non adeguatamente sostenute. La sopravvivenza dell’organizzazione è questione di soddisfacimento costante di bisogni. Gli obiettivi diventano fini a se stessi se la sopravvivenza dell’organismo è costantemente un focus per le sue componenti. Quelle stesse componenti che interagiscono costantemente, che generano ulteriori bisogni, o equilibri o disequilibri. L’organismo oltre all’ambiente esterno vede, dunque, un ambiente interno condizionato dai rapporti di interdipendenza tra gli organi, tra le parti. E ciò è “volenti o nolenti”. Assumere la metafora organicistica è dichiarare interdipendenze e generazione di bisogni costante.
Realisticamente non esistono silos: perché ciò che si fa silos condiziona negativamente il proprio stesso modo di sopravvivere, tanto quanto la propria presunta impermeabilità danneggi le necessità degli organi che vi stanno intorno (e, se non sono intorno, sono comunque collegati ad esso da vasi, reticoli, altri organi, ecc., che sono alias per processi e relazioni, formali o informali).
Attenzione ai limiti di questa rappresentazione: non considera il potere creativo e creatore (di senso, relazioni, opportunità, di socialità) degli individui. Gli individui non sono organi né cellule e condizionano l’ambiente circostante piuttosto che esserne passivamente condizionati. Ed esistono i limiti dell’unitarietà, dell’equilibrio costante e omeostatico: quando necessitiamo di competizione interna come scelta tattica, quando vogliamo qualche bravo libero battitore che sperimenti e diverga, non stiamo sicuramente parlando di un organismo.
“Quest’azienda è una macchina perfetta!”
La metafora meccanicistica ha radici lontane: rappresenta l’antica ricerca di una organizzazione immune da criticità o sollecitazioni portate dall’esterno. Così come dovrebbe essere capace di mantenersi attiva e produttiva nonostante la produzione e l’emersione costante di bisogni da parte di componenti o dei singoli. Possiamo dire che è più quello che non dice questa metafora che quello che genera nell’immaginario. Nonostante la sua apparente materialità e concretezza, mette da parte proprio ciò che succede: gruppi antagonisti, free riding, competizione per le risorse. Il limite della metafora è proprio il non far vedere e non voler considerare la possibilità che certe dinamiche esistano, con l’intento quindi di risolverle e mantenerle risolte.
Sono esistite ed esistono organizzazioni improntate al meccanicismo (i fast food nel modello McDonald, i reparti ospedalieri di chirurgia, le officine di manutenzione delle compagnie aeree, ecc.): ma in caso di ambiente instabile, in caso di necessità di differenziare le produzioni, quando non si riesce a sostenere la “docilità” delle componenti umane, le condizioni per la macchina perfetta salteranno con facilità.
L’organizzazione meccanicistica scoraggia l’iniziativa, la messa in discussione: occorrono risorse che si adattino alla macchina per come l’abbiamo disegnata, che contribuiscano secondo lo schema che ho progettato per loro. Lasciando poco o nessuno spazio alla contribuzione personale alla modifica della macchina (ovvero alla possibilità di modifica).
“Dovremmo essere pronti ad una organizzazione in continuo cambiamento” (AKA L’organizzazione in continuo divenire, permanentemente flessibile)
Quando affermiamo questo intento, il cambiamento stesso prende forma e sostanza in maniera differente. Ognuno di noi ha un proprio “senso” per il cambiamento, i propri anticorpi, la propria avversione, la propria idea del “da dove cominciare” (similmente a quanto indica l’acronimo NIMBY – Not In My Back Yard!).
Possiamo però segmentare questa ricerca di disponibilità al cambiamento evidenziando 3 aspetti del fenomeno del cambiamento organizzativo per come avviene concretamente.
- Autopoiesi – un termine desueto per dirci che possiamo cambiare la natura del cambiamento. Consapevoli che ognuno ha la propria idea di cambiamento e che ci troviamo di fronte a rappresentazioni egocentriche del cambiamento desiderabile (ogni soggetto desidera un cambiamento che non è uguale al cambiamento desiderato/atteso dagli altri), un approccio realmente produttivo e che può avere effetto per tutta l’organizzazione è rappresentare il cambiamento come avente effetto sulle interdipendenze tra le persone nell’organizzazione. Questa della modifica delle interdipendenze tra le persone (“causalità reciproca”) condiziona il percepito del cambiamento, che passa da una forma egocentrica ad una formula comune per tutti, perché riguarda un impatto diretto sul come si sta assieme nell’organizzazione.
- Se intervengo a questo livello, nel comunicare l’esigenza e gli effetti del cambiamento, allora ho la possibilità di influenzare realmente i modelli di stabilità (che sono parte connaturata della riflessione sul cambiamento).
- La dialettica: ulteriore chiave di lettura e leva in una organizzazione che voglia o debba cambiare, è la ristrutturazione delle contrapposizioni, ovvero delle contraddizioni che caratterizzano le nostre organizzazioni.
A buon intenditor, … poche metafore (ma buone)!
Pasquale Lovino, Digital Transition Manager, Mylia