Il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è di dargli fiducia.
Ernest Hemingway
“Mi piacerebbe vivere riunioni in cui è possibile parlare di atteggiamenti che non sono piaciuti, per poterne parlare in modo tranquillo senza riscontri nel futuro”, “Vorrei un ambiente più sereno con i colleghi”, “Sono fondamentali i rapporti tra colleghi e la valorizzazione delle persone senza ostacolare le loro idee trattandole più umanamente”, “Mi piacerebbe avere fiducia come una volta, ora onestamente è come polvere fatata in azienda”
Sono alcune delle frasi che incontro durante i percorsi di consulenza sul benessere organizzativo e che mi fanno pensare quanto sia preziosa oggi la fiducia nelle organizzazioni, quanto sia impattante sulla realizzazione, sulla collaborazione, sulla convivenza e quanto vada rinnovata costantemente come un patto tra la persona e il suo contesto di lavoro. Smontando la fantasia che la fiducia sia una premessa, piuttosto che una conquista in una relazione di reciprocità. Fiducia preziosa come una risorsa, non infinita, nelle nuove domande lavorative e tendenzialmente scarsa e facile da perdersi (interessanti i dati del Barometro Edelmann sulla fiducia 2022). Mi ritrovo a parlare di fiducia, tra l’altro, dopo 13 anni in Mylia, un tempo interessante per porsi domande. E a farlo ad inizio anno, un periodo utile.
La fiducia, i rapporti e i valori in azienda
Dal mio punto di vista, la fiducia nelle organizzazioni ha a che fare con i rapporti, anzi, con il modo di vivere i rapporti dentro le aziende: il rapporto capo-collaboratore, il rapporto tra colleghi, tra team, tra territori. Nei contesti organizzativi avere fiducia significa anche “affidarsi a qualcuno”, “confidare in lui”, di fronte a eventi imprevisti o rischiosi. Penso alla diffidenza, al controllo, alla lamentela, alla pretesa, come emozioni alternative alla fiducia nel vivere i rapporti, con la premessa di fondo che “l’altro sia nemico, a meno che non mi dimostri il contrario”[1] e come questi aspetti non siano solo individuali, quanto culturali. Ovvero ci dicano qualcosa sulla cultura organizzativa di un’azienda. Di certo l’individualismo e la cultura competitiva non alimentano la fiducia, quanto la paura del nemico, del collega o team rivale quale nemico da cui difendersi, con cui non condividere informazioni, conoscenze, obiettivi. Uno schema ultimamente giocato tra persone con seniority e persone giovani in azienda. Anche l’appartenenza scontata è piuttosto obbligante, costringendo ad armonie artefatte, a silenzi prolungati, a compiacenze verso capi e colleghi.
I luoghi di osservazione della fiducia
Uno degli strumenti e dei luoghi in cui la fiducia nelle organizzazioni si può osservare sono le riunioni di team in cui le comunicazioni mostrano come una cartina di tornasole il livello di fiducia (o di sfiducia) e di investimento nelle relazioni tra i membri del team. Eppure la “fiducia di prossimità” in Italia sembra quella che sostiene le relazioni oggi (in primis fiducia nei colleghi di lavoro, nei vicini e nel CEO).[2]
Un altro strumento elettivo in cui la fiducia nelle organizzazioni si può osservare è il momento di performance nella relazione capo-collaboratore: come dare senso a quest’esperienza perché possa essere uno spazio in cui ritrovare fiducia, sentirsi riconosciuti, piuttosto che stare sul controllo, sulla reattività o su un rituale ripetitivo? Soprattutto se vogliamo lavorare sulla retention delle persone.
Credo che la fiducia abbia a che fare con un’emozione di conoscenza reciproca, continua, non scontata, in cui ricondividere e negoziare scopi della relazione, che non sia l’appartenenza fine a sé stessa, ma la possibilità di costruire un obiettivo comune in cui crederci. Non solo valori, più o meno ben scritti e prescritti, men che mai compiti avulsi, ma imprese da realizzare assieme.
Fiducia e riconoscimento
La fiducia si collega poi alla questione del riconoscimento dell’identità: quanto mi sento riconosciuto e quanto mi riconosco nell’azienda, nei rapporti e nella mission. Quanto c’è spazio per potermi esprimere, dare, quanto sono valorizzato e apprezzato per i contributi e la visione che porto, c’è reciprocità nei rapporti che coltivo? L’espressione di sé va di pari passo con una comunicazione autentica, affettivamente, dove l’ambivalenza è ridotta al minimo, che apre al tema della confidenza ed intimità, della vulnerabilità come parte integrante della propria e altrui soggettività.
Nei percorsi di consulenza, spesso ci confrontiamo con difficoltà sulla comunicazione, nella collaborazione, nel darsi feedback, con il prevalere di pettegolezzo e conflittualità, come segnali di allarme di una difficoltà a sentire fiducia, a confrontarsi su obiettivi senza “aggredirsi personalmente”, ma anche a sentirsi valorizzato e valorizzare la presenza degli altri. Sento domandare spesso formazione sugli stili sociali, e credo che le aziende abbiano in qualche modo oggi, più che prima, nell’epoca post pandemica, un obiettivo non solo economico e di business, ma anche di sostenibilità sociale nel “formare individui alla socialità”, “accogliere domande e difficoltà di relazione”, in sintesi nell’ “accompagnare e orientare la convivenza”.
Sabrina Bagnato, Learning Designer & Psicoterapeuta, Mylia
[1] Carli R., Paniccia R.M. (2003). L’analisi della domanda. Teoria e tecnica dell’intervento in psicologia clinica. Bologna: Il Mulino