Intervista a Carolina Sansoni, co-founder di Talkin Pills e Forbes Under 30

Il progetto Talkin Pills nasce con l’intento di colmare il gap giovani-lavoro, ci racconti secondo la tua esperienza cosa lo crea oggi e cosa può colmarlo in futuro?

Secondo me i problemi principali sono l’età e la modalità di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Ho notato questo perché ho avuto la possibilità di studiare e fare esperienza all’estero dove sin dal primo anno di università non è concepibile che non si faccia esperienza lavorativa.

Questa è una mentalità che ad oggi in Italia manca: è vero, si può fare lo stage curriculare con scambio di crediti durante l’ultimo anno accademico, ma spesso non viene vissuto come reale esperienza lavorativa tanto dallo studente, magari preso di più dal percorso di studi (lezioni, esami), quanto dall’azienda.

La conseguenza è che ci si immette nel mercato del lavoro a 25 anni con un titolo ma tanta teoria e pochissima pratica, si iniziano quei due/tre anni di gavetta in cui si guadagna poco rispetto al costo della vita – soprattutto nelle grandi città – e il sistema va in tilt perché non ci si riesce a mantenere se non con l’ulteriore supporto della famiglia. Ma a quel punto il rischio è quello di creare un hub di privilegiati perdendo tanto dal punto di vista della diversità e del talento.

Riuscire a fare questo percorso prima della laurea accorcerebbe notevolmente i tempi, consentendo un inserimento congruo rispetto alle richieste del mercato nonché in linea col resto d’Europa.

Noi come talkin pills lavoriamo fornendo quegli strumenti di base che generalmente l’università non offre e che sono utili ad accedere al mondo del lavoro: ad esempio mini corsi sulla redazione di un cv o di una cover letter oppure consulenze personalizzate in base alle esigenze.

Con che modalità consigli di parlare ai giovani e quali sono i canali da prediligere per favorire l’attraction dei talenti?

Lo scenario della comunicazione è cambiato: mentre prima era sufficiente la sola presenza dell’azienda sui social media, oggi, data la saturazione del mercato, non basta più essere solo di rappresentanza e, soprattutto, non è consigliabile usare su tutti i canali lo stesso linguaggio che si usa a livello corporate.

Noto che sono proprio le aziende più grandi e strutturate a fare questo errore: c’è poca innovazione e comprensione delle potenzialità dello strumento e poca voglia di adeguare il tono all’interlocutore, lo dimostra anche il fatto che spesso non hanno social media manager interni e debbano affidarsi sporadicamente a professionisti esterni.

C’è bisogno di studiare il target di interlocutori, capire, in base ad esso, come comunicare e poi andare a sviluppare questa cosa su tutti i vari canali a seconda dello scopo che voglio perseguire. Ad esempio, su LinkedIn ci si rivolge prevalentemente a professionisti corporate e si può usare un determinato registro, ma su Instagram, ove il target è 20-35 anni, bisogna adeguare il tono. Lo stesso dicasi per TikTok, dove l’età media è ancora più bassa (16-24, ndr.). E mentre è possibile servirsi di Instagram anche per cercare talento, su TikTok devo solo rendere più attrattiva la mia azienda e fare in modo che lo studente che oggi guarda i miei contenuti tra 5/6 anni voglia lavorare con me.

Per concludere, infine, è necessario comprendere che ci sono vari strati della comunicazione e che il livello più “basso” ha la stessa capacità del livello più alto di impattare il pubblico, ciò che funziona è un giusto mix di entrambi. Il post su LinkedIn che spiega i valori dell’azienda non è migliore, in termini di incisività, del video accattivante su Instagram in cui mostro che nella mensa aziendale offro il cheeseburger. Le aziende non dovrebbero, quindi, guardare i social con diffidenza o percepire la propria presenza su queste piattaforme come inopportuna perché andrebbero a perdere delle occasioni.

Per quanto attiene alla retention, cosa contribuisce a trattenere un giovane talento in azienda? Che ruolo può rivestire la formazione?

Noto che ciò che manca di più dall’ingresso in azienda – e durante tutto il percorso – è la trasparenza in merito alle reali prospettive future, sia in termini di carriera che di stipendio e benefit. Invece, comunicare chiaramente e sin da subito le informazioni relative al percorso di crescita riduce le possibilità che la risorsa vada a cercare altre opportunità lavorative.

Inoltre, il momento storico di incertezza economica che oggi genera nei giovani la paura di non potersi permettere un progetto di vita è anche ciò che li porta di più a cambiare azienda a fronte di un aumento, anche minimo, di stipendio.

Quindi è importante l’aspetto retributivo tanto quanto quello umano: sentirsi valorizzati e “protetti” dall’azienda per la quale si lavora e avere la certezza del percorso di crescita che spetta a ciascuno al raggiungimento di determinati obiettivi.

Infine, il welfare aziendale è un fattore molto importante: un’integrazione ben strutturata di benefit, ad esempio: settimana corta, flessibilità oraria, remote working, migliora la qualità del lavoro e della vita del dipendente e di riflesso apporta benefici anche all’azienda.

Ciò che è certo è che le nuove generazioni saranno poco inclini a piegarsi alla vecchia struttura del lavoro. Anche se non sarà facile e immediato per le aziende più grandi, sarà fondamentale per la loro sopravvivenza adeguarsi al cambiamento traghettando anche le figure più senior verso questo nuovo orizzonte.

Quanto alla formazione, gioca un ruolo fondamentale, perché le esigenze e gli strumenti si evolvono e di qui la necessità di revisionare regolarmente le competenze tecniche; ma è importante anche per allenare quelle competenze trasversali magari non direttamente spendibili nello specifico settore di lavoro ma che consentono alla risorsa di trarre nuovi stimoli favorendone così la crescita personale. Riuscire a formare direttamente in azienda comporta un indubbio vantaggio competitivo, utile tanto al singolo dipendente quanto all’azienda.

Alla luce della tua esperienza, quali sono le competenze imprenditoriali necessarie per avere successo e quali pensi siano le attività da dover svolgere per apprenderle e migliorarle?

Credo che lo spirito imprenditoriale parta un po’ da dentro di sé: quando non ti soddisfa quello che hai intorno è il momento di creartelo da solo.

Ci sono persone che non intraprenderebbero mai una simile avventura e magari ce ne sono altre che ci provano e poi si rendono conto che non fa per loro; quindi, non credo ci siano delle vere e proprie tick da spuntare per essere un imprenditore.

Io stessa, ad esempio, circa 6 anni fa ho aperto una start up che poi è andata male, ho messo in dubbio che fossi in grado di fare una cosa del genere da sola e per un periodo ho continuato a lavorare da account per un’azienda. Solo dopo vari anni ho avuto questa opportunità che, nata come un gioco, è poi diventata un lavoro. Probabilmente proprio per questo è andata bene, nel senso che non c’è stato uno studio a priori dietro ed è venuto tutto molto naturale.

In base all’esperienza, è l’empatia verso le persone che lavorano per te o con cui si collabora in generale il fulcro fondamentale, soprattutto in realtà piccole.

Anche l’organizzazione è una skill molto importante, perché consente di dare un ritmo alle persone che collaborano con te, ma bisogna soprattutto avere obiettivi e tempistiche chiari ed avere sempre un piano B qualora il piano A non dovesse funzionare, senza rimanere fossilizzati su qualcosa che non sta andando come dovrebbe.

Infine, bisogna essere in grado di autogiudicarsi cercando di trovare un equilibrio tra l’essere troppo severi o, al contrario, troppo indulgenti con sé stessi; probabilmente avere un compagno di viaggio ci può aiutare a trovare questo equilibrio.

Hai notato delle differenze tra ragazzi e ragazze rispetto al modo di approcciare al mondo del lavoro? Se sì, quali sono e a cosa sono dovute secondo te?

Sinceramente non ho notato differenze di approccio al mercato del lavoro tra ragazzi e ragazze.

Dal lato delle aziende, però, non si può dire lo stesso: perché fin quando l’attuale regolamentazione, ad esempio della maternità, rimarrà immutata, non credo si possa giungere ad una piena uniformità. Sapere di dover pagare per circa un anno un dipendente non operativo a fronte di una risorsa che invece durante quell’anno lavora, non crea sicuramente i presupposti per un’inversione di trend.

Finché non si renderanno uguali ed equi i tempi di assenza per le madri e i padri, si creerà sempre una differenza per noi sfavorevole.

Ovviamente spero che le cose cambino e si prenda spunto, ad esempio, dal metodo nord-europeo che spesso rappresenta il faro e la guida dell’Europa su questi temi sociali. Magari da noi la situazione cambierà tra 15-20 anni, con l’augurio che i nostri figli possano vivere in un mondo del lavoro più equo e inclusivo.

Clicca per votare questo articolo!
[Total: 17 Average: 4.7]