Immigrazione e Discriminazione per la diversa provenienza: Esistono modelli vincenti di integrazione nel mondo del lavoro? E com’è la situazione in Italia?

Sono il 10,3% del totale degli occupati (2,4 milioni) e contribuiscono a generare il 9% del PIL nazionale. Ma l’integrazione dei lavoratori stranieri – provenienti in gran parte da Paesi non europei, in particolare da Nord Africa, Europa Centrale e Cina – non sempre è facile.

LE COMPETENZE PERDUTE E LA POCA FORMAZIONE

L’Italia presenta alcuni tratti distintivi rispetto all’immigrazione, che rendono il processo d’integrazione più complesso. Per esempio, nel nostro Paese, più della metà della popolazione immigrata ha una bassa istruzione formale, a differenza degli altri Paesi Ocse, e – come si legge nel XIII° Rapporto Annuale sugli stranieri nel mercato del lavoro in Italia del Ministero del Lavoro – solo il 12% ha una laurea. Ma a frenare l’inclusione sul posto di lavoro è anche la mancanza di una gestione proattiva dei loro profili professionali: dalla difficoltà di mappare le competenze realmente in loro possesso all’iter per il riconoscimento formale dei titoli di studio, passando per la scarsa offerta di corsi di formazione e riqualificazione, un terzo rispetto al resto d’Europa. In base al Rapporto Annuale del Ministero, infatti in Italia solo il 2%, degli immigrati ha partecipato a corsi di formazione per adulti nel 2020, rispetto a circa il 6% nell’UE. Così oggi la gran parte (75%) dei lavoratori stranieri è impiegata con la qualifica di operaio, pochissimi sono dirigenti o quadri (1%), o ancora imprenditori (1,7%). La quasi totalità di queste persone si sentono ancora discriminate a causa delle proprie origini (91%) e spesso sono costrette ad accettare lavori che non corrispondono al proprio profilo ed esperienze.

L’ECOSISTEMA DELL’INCLUSIONE

Germania e Regno Unito sono tra i Paesi più ambiti dalle persone migranti: perché? Esiste un “modello” di successo nell’accoglienza e nell’integrazione? In Gran Bretagna ci sono leggi specifiche contro la discriminazione per la diversa provenienza, come il Race Relations Act, e un’attenta sorveglianza della loro applicazione anche in ambito lavorativo e questo ha favorito lenti progressi verso una cultura organizzativa inclusiva. E in Germania? La forte partnership pubblico-privato ha permesso di mappare le loro competenze e organizzare corsi di formazione ad hoc, per un rapido inserimento in azienda, affiancato da un percorso di integrazione sociale (alloggio, medico, scola per i figli, etc..). Un modello vincente – come documenta lo studio sponsorizzato da Tent Partnership for Refugees – tanto che l’88% delle imprese prevede di aumentare il numero dei rifugiati da assumere. E in Italia? Meno di un’azienda su cinque (17,9%)– come emerge dal white paper di Adecco “Diversity, Equity & Inclusion”- ha attività a favore dell’interculturalità. Eppure il nostro Paese è fortemente impattato dai flussi migratori, e potrebbe trasformare l’accoglienza in nuove opportunità di crescita, mettendo a sistema quelle che al momento sono singole buone prassi. Come il Programma Welcome, working for refugee integration dell’ UNHCR che ogni anno premia le aziende che hanno favorito l’occupazione dei rifugiati. Ma come insegna il “caso” tedesco è solo costruendo un ecosistema pubblico privato che l’accoglienza può trasformassi in integrazione di successo. Una lezione che alcuni territori, come la sperimentazione a Brescia dimostra,stanno facendo propria.

Anna Zavaritt, Corporate Purpose & SDGs Storytelling, giornalista

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