In azienda oggi convivono anche cinque generazioni diverse. Ma quanto sono diversi tra di loro i baby boomers, gli “ex ragazzi” della x- Generation, i millennials e la Generazione Z? la pandemia ha trasformato il mondo del lavoro e posto l’attenzione sull’unicità delle singole persone e di ciò che le motiva, dicono le ricerche più recenti.

DAVVERO OGNI GENERAZIONE VUOLE QUALCOSA DI DIVERSO?

In azienda oggi convivono anche cinque generazioni diverse. Ma quanto sono diversi tra di loro –  al di là degli stereotipi – i baby boomers (nati tra il 1946 e il 1965) identificati come carrieristi o gli “ex ragazzi” della x- Generation (i nati tra il 1966 e il 1980), ai quali viene attribuita invece una forte attenzione per la qualità della vita e l’indipendenza professionale? E davvero i millennials (nati tra il 1981-1995) hanno doti di collaborazione e team-work, mentre la Generazione Z (nati dal 1996 in poi) vive nel mondo digital e si annoia facilmente? Le imprese con la pandemia hanno dovuto affrontare una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro, tra modalità di collaborazione sempre più ibride e il fenomeno delle dimissioni di massa, che anche in Italia ha riguardato un lavoratore su cinque (19,5%).

GLI EFFETTI DELLA PANDEMIA

In questo scenario, la capacità di valorizzare ed integrare persone che, in base all’età anagrafica, potrebbero avere un background, esigenze personali ed aspettative differenti diventa cruciale. Il condizionale è d’obbligo perché il Covid ha rappresentato un “prima” e un “dopo” per tutti – trasversalmente – e anche in ambito professionale le categorizzazioni sulla base dell’età sono, almeno in parte, saltate.  Se è vero che gli under 27 hanno guidato il fenomeno conosciuto oltre oceano come Great Resignation e che sono soprattutto gli uomini over 50 i più pentiti tra quelli che hanno cambiato lavoro, è anche vero che come rivela una recente ricerca di McKinsey, è necessario sfatare i miti basati sull’età a proposito delle preferenze dei lavoratori.

LA DIFFERENZA E’ LA LEVA MOTIVAZIONALE

“Adottare un approccio più analitico per comprendere come i diversi fattori interagiscono e influenzano le decisioni di ciascun individuo – si legge nella ricerca – piuttosto che applicare una gamma generica di strategie a sotto-popolazioni aziendali su base demografica è cruciale per le aziende”. Nonostante i motivi per cui le persone lasciano un lavoro o ne accettano uno nuovo siano trasversali alle diverse generazioni, una significativa differenza “anagrafica” la ricerca però la rileva: i motivi di retention, che fidelizzano i collaboratori, variano significativamente in base all’età. Qualche esempio: le persone della generazione Z , ad esempio, classificano la flessibilità, lo sviluppo della carriera e un ambiente di lavoro sicuro e di supporto come fattori più importanti della retribuzione quando decidono di restare in un posto di lavoro. Lo stereotipo che siano motivati principalmente dal denaro nasce dal fatto – spiega ancora la ricerca – che ne parlino in modo più aperto e trasparente. La generazione X invece, per quanto abbia un reale bisogno di continuare a lavorare, è molto motivata da una cultura organizzativa inclusiva e valoriale e al contrario dello stereotipo sul “posto fisso”, sono disposti a cambiare pur di trovare affinità con i colleghi. Altre ricerche confermano che ancora oggi c’è la tentazione di “incasellare” le persone in categorie predefinite, mentre l’attenzione dovrebbe essere focalizzata sulla fase della vita e sulla fase di sviluppo. Per favorire quindi l’inclusione di diverse generazioni in azienda, non basta più categorizzarle su base anagrafica ma sono necessarie ascolto, coinvolgimento attivo e formazione, sulla base delle specifiche necessità.

Anna Zavaritt, Corporate Purpose & SDGs Storytelling, giornalista

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