Alla vigilia dell’Equal Pay Day europeo, il 15 novembre, facciamo il punto sul divario salariale di genere. E mentre in Islanda a fine ottobre metà del Paese si è fermato per protestare, i primi dati sulla Certificazione della parità di genere in Italia confermano che è il “tallone d’achille” in azienda.
UN MESE E MEZZO DI STIPENDIO IN MENO
La data non è casuale: dal 15 novembre di ogni anno è come se le donne all’interno dell’Unione Europea lavorassero gratis, perché in media guadagnano il 12,7% in meno rispetto ai colleghi. In Islanda non hanno aspettato la ricorrenza dell’Equal Pay Day per scendere in piazza, a metà ottobre hanno protestato contro il gender pay gap, nonostante il Paese sia in vetta agli indici di parità di genere.
LA TRASPARENZA SALARIALE
Perché in altri Paesi, come l’Italia, molto meno virtuosi sulla parità di genere il tema del divario salariale resta un tabù? Prima di tutto perché non c’è ancora trasparenza su un dato tanto sensibile. La nuova la direttiva UE 2023/970 va in questo senso: dal giugno 2027 le imprese oltre i 150 dipendenti dovranno rendere accessibili ai propri collaboratori i criteri utilizzati per determinare la retribuzione, i livelli retributivi e la progressione economica. E in caso di immotivato divario (ovvero superiore al 5%), correre ai ripari.
In alcuni Paesi il principio di trasparenza salariale è già realtà. In Francia per esempio dal 2020 le aziende con più di 50 dipendenti sono obbligate a pubblicare l’Index de l’égalité femmes-hommes, un indice pubblicamente consultabile , e le aziende “sotto” i 75 punti (su 100) hanno tre anni per migliorare. Anche in Gran Bretagna i dati per le aziende con più di 250 dipendenti sono pubblici, in Germania invece dal 2018 è il lavoratore che ha il diritto di richiedere informazioni dettagliate e comparative sul proprio stipendio. E in Italia? La Legge n. 162 del 2021 tra le novità introdotte in materia di pari opportunità ha inserito l’obbligo – per le aziende con più di 50 dipendenti – di inviare al Ministero del lavoro un rapporto biennale, che include anche dati retributivi, poi pubblicati in maniera aggregata.
ATTENZIONE AI DATI: IN ITALIA IL DIVARIO È PARI AL 12,5%
Se guardiamo a Eurostat, che analizza il dato medio delle retribuzioni orarie lorde, l’Italia sembra virtuosa con un divario del 4,2% (media UE del 13%). Ma attenzione: se si scorporano i contratti pubblici, questo dato sale al 12,5%. Come è possibile, visto che il principio di parità retributiva è garantito per legge? Come spiega bene e in maniera dettagliata l’economista Luisa Rosti, questo divario riflette stereotipi e pregiudizi di genere che si stratificano lungo tutta la carriera di una donna, fino all’età pensionabile.
UN GAP LUNGO UNA VITA
LA PAGHETTA. La discriminazione economica di genere comincia già da piccoli: secondo i dati Istat i ragazzi adolescenti a ricevere regolarmente la paghetta sono il 10% in più (53,2%) rispetto alle ragazze (42,1%), per le quali il denaro è “un regalo” o un “premio”. Questo “imprinting” purtroppo resta per tutta la vita: il 60% delle donne anche in età adulta delega, volontariamente, la gestione economica al partner.
LA MATEMATICA. Abituate a “non chiedere” e a “non far di conto”, fino dalle elementari c’è uno scarto di 16 punti (la media dei Paesi Ocse è 5) tra bambini e bambine sulle competenze matematiche, e così le ragazze si indirizzano – o meglio vengono indirizzate– verso materie più umanistiche.
LA LAUREA. Si laureano prima e meglio – dati Almalaurea alla mano – ma in discipline a bassa occupabilità, mentre le ragazze che frequentano un corso di laurea nelle cosiddette materie Stem (science, technology, engineering and mathematics) sono solo il 14,5%. Eppure, quando le scelgono finiscono in corso e con voti più alti (104 contro 102 dei coetanei).
INGRESSO NEL MERCATO DEL LAVORO. E se il tasso di occupazione femminile è in costante crescita (52,6%, ma 13,8% inferiore alla media europea), l’ingresso nel mercato del lavoro non è paritario: ad un anno dalla laurea triennale le ragazze guadagnano il 17,3% in meno rispetto ai ragazzi, un divario che resta anche dopo cinque anni (13,9% in meno), con contratti più precari e più spesso a tempo parziale.
UNA CARRIERA IN SALITA. Non è la mancanza di ambizione a frenare la crescita professionale delle donne, in base all’ultima edizione di “Women in the Workplace”, ma il “gradino rotto” che non riescono a superare. Un gradino fatto da una cultura aziendale non inclusiva, di micro-aggressioni e svalutazioni verso le donne. Un gradino che esiste anche in Italia, dove le donne sono ancora solo il 31,6% delle figure quadro e il 20,5% delle dirigenti e dove, in base ai primi dati sulla Certificazione della parità di genere, in un terzo delle imprese il pay gap anche delle più virtuose è superiore al 10%. Ed è la cultura che qui può fare la differenza, come emerge anche dalla ricerca di Adecco: più della metà delle imprese dichiara di impegnarsi molto o abbastanza in attività di DE&I, ma la maggioranza dei collaboratori (67%) non conosce le iniziative, e quasi otto lavoratori su dieci non vengono coinvolti in attività di formazione.
ANCHE IN PENSIONE. Le difficoltà di una vita sul lavoro si riflettono poi anche al momento della pensione, che in media è del 30% inferiore, tra carriera non lineari e interruzioni professionali dovute al ruolo di caregiver che spesso ricade sulle donne.
C’è poco da festeggiare quindi, ma l’Equal Pay Day serve ogni anno per ricordarci i numeri (critici), gli snodi (ormai riconosciuti) e registrare anche i piccoli, lenti progressi.
Anna Zavaritt, Corporate Purpose & SDGs Storytelling, giornalista